Come un pellegrino devoto rinnovo il mio cammino verso, attraverso uno dei santuari della montagna silana. L’alta valle del Tacina è uno dei più maestosi, un grande chiostro tappezzato di verde, che si snoda per chilometri, fiancheggiato da alture fittamente boscate, dominato da ogni angolo visuale dalla mole del Monte Gariglione, che, procedendo verso levante, sembra suggerire al viandante la facciata di una chiesa romanica, e lascia immaginare, con le sue tre inconfondibili cime, il portale principale e le porte laterali. Io e Marco ci avviciniamo a questo insigne edificio per un comodo sentiero che procede verso Est per poi piegare leggermente a Nord, aggirando di fatto il Timpone Morello. Un breve cammino che segna, come sempre, il distacco rapido, gradito dal mondo quotidiano e immerge nella dimensione atemporale del bosco, abbastanza fitto da concedere la sola visione del cielo, delicato con le eleganti linee dritte dei tronchi dei faggi e i rami disseminati di giovani, piccole foglie dalla confortante tonalità verde brillante. E quando gli alberi si diradano compare la superficie, increspata dal vento, del laghetto che si stende per poche centinaia di metri a marcare la testa della valle, una delle tante opere maggiori e minori dell’uomo di cui la Sila è disseminata, più o meno utili, più o meno inutili, spesso perfettamente riassorbite dall’ambiente che le ospita. E poco oltre un passaggio tra alcuni faggi di ragguardevole mole, una sorta di portale che introduce al percorso lungo l’alta valle. Il cielo percorso da cirri, l’annuncio di un imminente cambio del tempo. Fioriture di margherite e di violette di montagna, alcune timide e sparse, altre più convinte e fitte, piccole orchidee, qualche narciso, tutti rivolti a meridione, a cogliere la luce e il calore del sole di primavera. Siamo su una terra alta, la primavera si fa strada più lentamente, le foglie nuove non abitano ancora tutti i rami e il bosco di faggi appare come una distesa di sbuffi verdi su un fondo vagamente rugginoso. Chi percorre la valle da Ovest verso Est, sulla sinistra idrografica del Tacina, ha come immancabili riferimenti due vecchi edifici, indicati sulle carte topografiche come la prima e la seconda Vaccheria. E la prima Vaccheria è la più grande, articolata in due edifici, ingentilita da una vasca in pietra. Ma avvicinandoci ci rendiamo conto che la prima Vaccheria era la più grande, perché i muri perimetrali sono crollati, e alla base, da ogni lato, vi sono cumuli di pietre. Quando è successo? Quale tempesta invernale ha segnato la fine di quella vecchia casa che aveva dato riparo a uomini e animali, quale vento impetuoso, quale turbinio di neve, quale fulmine iroso ha abbattuto quelle spesse mura di pietra? E mi viene in mente una vecchia idea che ricorre da tempo nella mia mente, ogni volta che mi imbatto in edifici piccoli o grandi, diruti. E quell’idea mi richiama il titolo di un saggio pubblicato anni fa da Alan Weisman, “Il mondo senza di noi”. Già la Vaccheria in gran parte crollata è l’icona dell’opera lenta, inarrestabile della natura sulle opere dell’uomo, una volta che l’uomo per qualche motivo sbaracca definitivamente dalla scena. E se pur la valle del Tacina tra qualche giorno sarà popolata da animali al pascolo che la raggiungeranno con la transumanza, accompagnati da moderni pastori su pickup, se pur essa sarà percorsa da escursionisti, non tanti, questa valle è in fondo un mondo senza di noi. Non ci respinge, anzi la sua bellezza dolce ci invita a visitarla, a percorrerla, credo che la valle voglia gratificarci con la sua perfetta architettura, eppure per gran parte del tempo che noi umani misuriamo con i mesi e gli anni, la natura con l’infinito succedersi delle stagioni, essa rimane, è un mondo senza di noi. E il breve pellegrinaggio prosegue verso la seconda Vaccheria, che versa anch’essa in condizioni miserevoli e si conclude, almeno oggi, su una dolce ondulazione della montagna che cinge la valle a settentrione, quella che Francesco Bevilacqua, tanto tempo fa, ha battezzato Poggio degli Elfi, un nome che ispira levità, un nome che evoca la dimensione senza tempo del luogo. E davanti a noi, sembra quasi di toccarlo, il Monte Gariglione, tinto di verde tenue, macchiato dal verde cupo di pini e abeti, la montagna che sembra chiudere e riassorbire alla sua base la valle, che in quel punto si restringe e inizia a incassarsi. E il vento, dapprima allegro, adesso teso, ci ricorda che lui, l’acqua che dappertutto si raccoglie in rivoli che si versano nel Tacina, il cielo e le nubi che lo popolano, la grande, discreta famiglia degli alberi silani, sono i signori di quel luogo, e accompagnando i nostri passi ci ringrazia per l’atto di rispetto che è stato il nostro cammino.

Sila, Valle del Tacina. Sila luogo dell’anima.

Testo e foto di Piergiorgio Iannaccaro